novembre 25, 2021

La MIA LISTA




Il New York Times ha pubblicato la sua lista dei 25 big della letteratura. Per noi l'ha ripubblicata il Corriere della sera. La cosa mi ha fatto venir la voglia di pubblicare la MIA, di lista. Non ha un valore "oggettivo", come pretenderebbe di avere quella del N.Y.T. (su che base, poi?). Ha invece un grande valore soggettivo. Ci sono autori notissimi e autori meno noti e soprattutto mancano autori di grande levatura, che nella mia esistenza di lettore non hanno rivestito una particolare importanza.

Non è una graduatoria di merito e non è in ordine alfabetico.


-THOMAS MANN (La Montagna incantata)

-BRUNO SCHULZ (Le botteghe color cannella)

-ELIAS CANETTI (Auto da fé)

-VLADIMIR NABOCOV (Lolita)

-VIRGINIA WOOLF (Le onde)

-ITALO SVEVO (Senilità)

-GUIDO MORSELLI (Il comunista)

-LOUIS-FERDINAND CELINE (Morte a credito)

-LUDOVICO ARIOSTO, (l'Orlando Furioso)

-DANTE ALIGHIERI (L'Inferno)

-NICCOLO' MACHIAVELLI (Il Principe)

-ROBERTO BOLAGNO, (2666)

-LAURENCE STERNE (Vita e opinioni di Tristram Shandy)

-WILLIAM VOLLMANN (Europe Central)

-JOHN HAWKES (Arance rosso fuoco)







novembre 23, 2021

La LETTURA come ESPERIENZA di vita

Fino ad ora abbiamo parlato di LETTORE. Adesso parliamo di LETTURA. Ma non tanto dell'atto del leggere, quanto delle conseguenze del leggere. Cosa "smuove" dentro di noi la lettura di un romanzo e cosa "resta" di ciò che si è letto? Inoltre, questa esperienza del leggere cambia in modo significativo nel corso della vita? Che differenza c'è fra la prima, frettolosa, e la seconda più meditata lettura di un romanzo? E quanto spesso capita di affrontare una seconda lettura?




Va da sè che una persona può rispondere a questa domanda solo per quanto attiene a se stesso. Per cui giriamo le domande ai nostri lettori. Il campione è molto limitato. Ma qualcosa può saltare fuori lo stesso.

In attesa di conoscere le risposte dei lettori, ecco per sommi capi la nostra esperienza personale.


Da ragazzo leggevo quello che mi regalavano i "grandi": Salgari, Verne, W. Scotti fratelli Grimm. Letture per ragazzi, nelle belle edizioni cartonate che proponeva l'editore Ugo Mursia. Ero un lettore avido. Una cosa è certa: la lettura di un romanzo mi coinvolgeva molto di più della lettura di un fumetto o della visione di un programma televisivo. Personaggi come Ivanhoe, Il corsaro nero provocavano viaggi psichedelici.  In quel modo esercitavo la mia immaginazione. Solo il cinema sul grande schermo aveva su di me una presa altrettanto potente. Ma la storia del rapporto fra ragazzi e cinema è stata già ampiamente raccontata. 




Crescendo ho smesso di leggere. La scuola non incoraggiava la lettura extra curricolare. Anzi, non incoraggiava per niente la lettura, perchè gli Autori si studiavano sul manuale e solo Omero (scuola media), Manzoni e Virgilio (ginnasio), Dante (liceo) prevedevano una lettura "integrale". Ma si trattava di una lettura-studio, di quelle su cui ti interrogavano. Non era certo l'ideale. 

In terza liceo, non si sa perché, mi è tornata la voglia di leggere e di mia iniziativa ho iniziato un ciclo di letture appassionanti, che hanno spaziato da Dostoevsky a Maupassant a Victor Hugo. Erano tutti autori che trovavo nella biblioteca di casa. Probabilmente mi hanno aiutato in certi delicati frangenti adolescenziali. Erano dei "maestri", degli amici più grandi. Poi più niente letture per anni, se non i gialli Mondadori e gli Urania. Quando volevo rilassarmi leggevo sdraiato sul letto e fumavo. Credo di essermi instupidito. 

Finalmente sui quarantanni ho iniziato un secondo ciclo di letture appassionanti. Non nascondo il fatto che questa nuova ondata di letture ha coinciso con una grossa crisi sentimentale. Sicuramente cercavo nei romanzi una consolazione o una distrazione.

Leggevo Céline, Kafka, Musil, T. Mann, Virginia Woolf, Canetti, Camus ma anche i poemi cavallereschi, come l'Orlando furioso. Letture "alte", questa volta. Suggerite probabilmente dalla constatazione che negli ultimi tempi mi ero imbarbaritoCome lettore ero maturato. Leggevo meno voracemente, ma anche meno distrattamente. Prendevo appunti. Mi soffermavo su un autore, adottavo persino il suo stile. Céline in particolare mi ha contagiato. Per mesi ho scritto come lui. Da ciascuno di questi grandi autori attingevo spunti per vivere malgrado il mio contingente fallimento amoroso. Il giovane Hans Castorp della Montagna incantata, ma anche Peepekorn il fantasioso megalomane e il protagonista del Cavaliere d'industria Felix Krull mi hanno indicato dei sentieri nuovi da percorrere. Ho pianto sullo sventurato nano e gobbo Fischerle di Auto da fè. Mi sono spazientito per le penose esperienze dell'agrimensore del Castello di Kafka. Insomma, posso dire che in quel periodo la lettura è stata la classica scialuppa di salvataggio. 


il gobbo Fincherle poco prima di essere ucciso


Poi sono passato a letture più "mirate", dato che nel frattempo avevo cominciato a frequentare i critici. Non ricordo come sia avvenuto questo salto di qualità. E chi abbia propiziato il mio avvicinamento alla saggistica letteraria. Forse un libro trovato per caso in libreria. C'è da dire che all'Università avevo seguito il corso di critica letteraria di Mario Fubini. Quell'anno il corso riguardava la critica stilistica. Leo Spitzer in primis. Una rivelazione. Ma dopo quell'esame, che avevo dovuto rifare perchè Fubini mi aveva preso in castagna su una questione di metrica, più niente per almeno trent'anni.

Forse la molla è stata il fatto di essermi messo a scrivere in modo meno occasionale. Probabilmente nei critici cercavo la rivelazione di qualche "segreto" del mestiere. A tormentarmi in que lperiodo era il fatto di non comprendere la ragion d'essere del "postmoderno" (e sul versante filosofico quella dello strutturalismo). Neanche Luperini, che dal postmoderno era ossessionato, mi ha aiutato in questa ricerca. Foucault al contrario mi ha aiutato a capire, non lo strutturalismo, ma la "cura di sè" (mi riferisco alle sue mirabili lezioni sulla filosofia greca dell'ellenismo al Collegio di Francia).
Epperò la frequentazione dei critici mi ha orientato verso un rapporto più professionale nei confronti della lettura. Basta con le letture occasionali, con i grandi assalti di entusiasmo. Al loro posto letture mirate. Un tassello dietro l'altro.
In questo modo, senza essere diventato un esperto, ho cominciato a diventare un lettore colto.




novembre 22, 2021

Il lettore comune, questo sconosciuto

Torniamo sul tema del LETTORE. E' un tema che ci sta particolarmente a cuore, perché i romanzi dello scrivente incontrano il più delle volte delle disconferme. A dirla spiccia, i lettori o non ce la fanno a finire il romanzo oppure dichiarano di essersi persi, di non aver capito molti passaggi.


A nostra consolazione va detto che questi lettori sono gli stessi che "mollano il colpo" davanti ad autori ultra classici, come Virginia Woolf. E non la Woolf delle Onde, ma quella di Gita al faro. Sono lettori "viziati" da una certa letteratura di consumo, che propone trame lineari e un linguaggio semplice. Potremmo definirla una letteratura del microquotidiano (questo è senz'altro il caso di Banana Yoshimoto) o del dramma individuale (una malattia, una tragedia familiare, un rapporto in crisi). Va da sè che un'autrice attenta all'intimità  minuto per minuto dei suoi personaggi, come Virginia Woolf, disorienta, anche per la sua inclinazione ad ascoltare e registrare il "rumore" interiore di più personaggi contemporaneamente (si veda l'attacco della Signora Dalloway). 

Scavando nella biografia di questi lettori si scoprono alcune cose interessanti. Intanto non hanno compiuto un corso di studi orientato verso le "belle lettere", come si chiamavano una volta. Quindi non hanno preso confidenza con lo scenario, come potremmo definire lo snodarsi nel tempo della "cosa letteraria". Non hanno quelle  convenzionali coordinate che possiede chi ha studiato in modo tradizionale la storia della letteratura (come la storia della filosofia o la storia dell'arte). Dove per "tradizionale" si intende il modello scolastico consacrato da Giovanni Gentile. 

Altro handicap (usiamo questo termine in modo bonario): non hanno fatto il passaggio da una conoscenza scolastica di "primo grado" ad una conoscenza scolastica di "secondo grado". Ci riferiamo a quella stimolante discontinuità che si creava quando lo studente, promosso alla maturità, passava dallo studio liceale allo studio universitario, che era caratterizzato dall'approfondimento monografico e dal ricorso alla "critica" (critica delle fonti, comparazione critica dei diversi approcci etc.). Niente a che fare con la tranquillizzante sequela di dati certi che era lo studio del manuale scolastico.

Se al liceo si studiava sostanzialmente la biografia del Tasso, all'Università si analizzava la sua opera, utilizzando un approccio che veniva dichiarato (e questa era la principale novità): approccio stilistico (nel caso per esempio di Fubini), approccio sociologico, approccio storicistico, come nel caso di Sapegno etc. Questa discontinuità consentiva di aggiungere alla sommaria idea dello scenario ottenuta dallo studio scolastico licealeuna seppur vaga idea di in che cosa potesse consistere la navigazione critica nella cosa letteraria. 

Orbene, si può dire con un certo margine di approssimazione  che il lettore comune non ha mai compiuto nè il primo nè il secondo passo di questo tirocinio.



 Ma allora, in cosa consiste il modo di leggere del lettore comune? E da cosa nasce la sua "voglia" di leggere?

E perchè il lettore comune orienta il più delle volte le sue preferenze verso testi rassicuranti, nei quali raramente capita di incappare negli "ostacoli" che gli autori con la A maiuscola dispensano a piene mani nei loro testi: una lingua lontana dal parlato quotidiano, una direzione di marcia segmentata (si pensi a certi salti temporali, come in Arance rosso sangue di John Hawks o ne Le correzioni di Jonathan Franzen), una predilezione per il discorso interiore, l'assenza di "eroi" e di trame avventurose, l'ibridazione dell'intreccio, che si apre spesso a divagazioni saggistiche (es. 2666 di Bolagno o Austerlitz di Sebald)?




novembre 21, 2021

MEGLIO essere un lettore "COMUNE" o un lettore COLTO?

 


Mi è capitato svariate volte di scoprire che molte persone non conoscono i grandi autori contemporanei. E non parlo di "pauci" lettori (ricavo il termine dalla covid-novela: pauci sintomatici...). A volte sono persone che leggono i loro bravi 20 libri all'anno. Cioè sono quelli che lo statistico chiama "lettori forti".

Per intenderci. Mi riferisco ad autori come il tedesco Sebald, il francese Houellebecq, gli americani Vollmann, Vonnegut, Franzen, il russo francesizzato Volodine. Etc etc.

Quelli che ho elencato, non sono neanche gli autori più "recenti". Fra di loro non ci sono premi Nobel freschi di alloro come Gurnah, Gluck, Handke, Tokarczuk, Ishiguro. L'area di appartenenza inoltre è quella tradizionale: europea ed americana.

Confesso la mia ignoranza. I premi Nobel che ho citato sopra io non li nemmanco sfiorati. E non ho neanche mai letto, per restare in Italia, W. Siti o Mari. Moresco l'ho solo assaggiato. Fra gli italiani l'ultimo che ho letto è (vado a memoria) Vassalli, che peraltro è un premio Strega anche lui. Vassalli è morto di recente (2015). Ma il suo romanzo più noto (La chimera) è del 1990. Dunque non sono un lettore "à pa page". Ciononostante mi considero un lettore "colto". 

Riflettendo su queste tre categorie di lettori (il naive, il colto, il lettore à la page), mi è balzata davanti agli occhi l'incisione di G. Dorè che rappresenta il canto 31 del Paradiso di Dante.



Come vedete ci sono 2/3 anelli concentrici che NON comunicano fra di loro.

Ecco, i tre lettori di cui ho parlato, forse, più che non comunicare fra di loro, diciamo che arrivano alla lettura procedendo per vie diverse. 

Tiro a indovinare: il lettore colto si fa ispirare da testi di critica letteraria (come ad esempio, banalmente, Walter Pedullà racconta il novecento, BUR 2013) e sceglie il romanziere. Il lettore naive si fa cosigliare dal libraio o dall'amico o dalla cronaca (il fatto di aver vinto il premo Strega, ad esempio) e scegli il romanzo. Il lettore a la page è  attivissimo sui social, sa quanto è necessario sapere, è informato su tutto ciò che avviene nel sacro recinto delle lettere. Il lettore à la page sceglie tutto e non sceglie niente..

Mi rendo conto che le mie sono pennellate assolutamente superficiali. La sociologia della letteratura è un'altra cosa. Ma dite la verità: quando mai si raccontano queste cose? Il massimo che si dice è: la gente non legge più, la gente legge quello che il "mercato" gli dice di leggere (per esempio Fabio Volo). Sono notazioni assolutamente insufficienti. Che non spiegano come mai esistono i cerchi concentrici di cui ho parlato più sopra.

Se poi capita, come a me, di scavalcare la barriera di vuoto che separa i tre cerchi e mi metto a dialogare con qualcuno che viaggia su un altro binario, allora la sensazione di appartenere a "universi paralleli" diventa ancora più forte.

In genere il lettore naive pridilige una letteratura facile (che io, snob, non considero neanche letteratura), mentre il lettore à la page, pur leggendo tutto, ha in testa una graduatoria settaria della letteratura. Ne conosco alcuni, con cui ho rotto per il loro fanatismo.  Proustiani fino al midollo. Secondo loro dopo Marcel non è cresciuto più un filo d'erba nel mondo letterario. 




P.S Una cara amica, leggendo questo post mi ha elencato i criteri con cui sceglie un romanzo: l'argomento (o la trama), la copertina, la presentazione in TV. Questo ribadisce quanto detto sopra: il lettore naive (senza offesa beninteso) sceglie per lo più il prodotto, non l'autore del prodotto. Quanto all'autore, non sa a priori come collocarlo nel panorama letterario. Diciamo che il termine stesso di panorama letterario non gli appartiene. Il suo merito: è sicuramente meno "scolastico" del lettore colto, meno "succube" dei critici. In compenso è "in balia" del marketing, scegli in base alla eco che un romanzo ha sui media. Non possiede coordinate. Per questo tipo di lettore la letteratura è un mare aperto, senza confini, senza rotte, dove navigare significa lasciarsi andare al vento che soffia di momento in momento.




novembre 19, 2021

refresh

Luca Ricci sul Domani di oggi (scusate il bisticcio involontario) racconta la penosa condizione dello scrittore contemporaneo alle prese con il compito di autopromuoversi. Un'autopromozione che si sviluppa prevalentemente sui social e che è quasi più importante dell'aver scritto un buon romanzo. Questo lavoro di autopromozione ha corollari penosi, fra i quali, in primis, il fatto di essere del tutto a carico dell'autore. L'editore non "paga" le estenuanti presentazioni in libreria. L'editore non c'entra con il lavoro di promozione di se stesso che l'autore fa su Twitter o su Facebook. Altro corollario penoso: chi ha un buon seguito su Internet, perchè sa titillare la pancia dei suoi follower, riesce a  farsi conoscere meglio di chi ha scritto un romanzo migliore, ma non è bravo a farsi amare dalla gente.


Ma che fine hanno fatto i critici? Che fine hanno fatte le recensioni? Che fine hanno fatto i salotti letterari? Che fino hanno fatto gli editori che si fregiavano del fatto di aver un promettente autore nel loro catalogo? In poche parole: che fine ha fatto quel circuito di "tecnici" che un tempo faceva da filtro fra l'autore e il pubblico?

Sembrano scomparsi nel nulla. Volatilizzati. Sgominati dall'invadenza dei social. I quali da un lato assicurano una "popolarità" immediata, ma anche molto volatile, dall'altro esigono di essere continuamente implementati e con tecniche che appartengono alla cassetta degli attrezzi più del pubblicitario che dello scrittore (da cui il termine Refresh utilizzato da Luca Ricci). Morale: lo scrittore si trova più o meno nella stessa situazione dell'influencer, che per poter "capitalizzare" (sui brand che promuove) deve costantemente essere sulla breccia. Cioè avere migliaia (se non milioni) di follower e tesaurizzare  migliaia di "mi piace".

In realtà le cose  non stanno esattamente così. Come sempre la realtà è più complessa. 

I critici esistono ancora. Diciamo che si sono "imboscati" nelle Università, facendo i docenti. Però scrivono ancora moltissimo. E partecipano ai convegni. Rispetto ai "bei tempi", quando il critico (militante) promuoveva o giustiziava un autore dalle colonne di un giornale, oggi il critico per quanto alzi la voce  non arriva a farsi sentire dai lettori. Di conseguenza non interessa più agli editori. Qualche critico ha accettato la sfida di Internet. Ma si è trovato circondato da decine di ferratissimi estensori di blog letterari, spesso più abili di lui nel costruirsi un seguito. Scrivere un buon saggio di critica letteraria e imporsi su Internet implicano infatti abilità diverse. Da un lato Internet è più "democratico", perchè ci si accede motu proprio. Dall'altro Internet non offre garanzie di serietà, perchè non prevede la gavetta che in passato un critico doveva fare per aver diritto di fregiarsi di questo appellativo.



Altro aspetto della questione che spesso non compare sui radar: i critici coltivano autori che il pubblico generico non sa neanche che esistono. Sono autori considerati "validi" sotto il profilo letterario, a prescindere dal loro successo commerciale. Basta scorrere gli atti di un convegno o l'indice di un saggio.
 

Facciamo qualche nome: Antonio Scurati, Walter Siti, Babsi Jones, Bajani, Mari, Moresco, Pincio... etc. I primi due sono conosciuti anche dal grosso pubblico, perché scrivono spesso sui giornali. E vincono premi letterati. Ma gli altri li conosce sono il moderno cultore di letteratura. Una figura evanescente, non codificata, della cui esistenza è persino lecito dubitare.


Per contraltare, esiste tutto un mondo di autori commercialmente di successo che non hanno accesso ai piani alti, meglio sarebbe dire le stanze segrete in cui si consacrano i cavalieri della tavola rotonda. Sono questi gli autori a cui accenna Luca Ricci, i peones della "non letteratura", i tanti (troppi) che si sono fatti tentare dall'idea di scrivere un romanzo. E vivono una sola stagione o una sola giornata, arrancando come dei disperati da una presentazione all'altra, su e giù per l'Italia. Qualcuno di loro (pochissimi) accede ai livelli superiori: vende, viene tradotto, vince importanti premi letterari. Ma attenzione a non confondere i piani. Non c'è osmosi fra i diversi ambiti. Il circuito "popolare", comprenderà pure gli editori (va da sè, sono interessati a fare numero...),  ma non comprende i critici. Di conseguenza il beniamino di internet non sarà mai cinto del serto di alloro che cinge la fronte degli autori che hanno fatto e fanno la letteratura. 

Post Scriptum: le immagini che compaiono non c'entrano niente con il testo. Le abbiamo inserite solo perché ci piacevano. L'ultimo quadro appartiene alla collezione del premio Suzzara: una collezione sconosciuta al grosso pubblico, che "è morta lì", pur avendo avuto, quando è nata, nell'immediato dopoguerra, l'ambizione di essere "popolare". 







dicembre 21, 2020

CROAK PI


l'immagine di copertina di Croak Pi
 

Croak Pi, il titolo dell'ultimo romanzo di Pietro Cabrini, è stato rubato a John Hawkes e per la precisione al romanzo Arance rosso sangue, dove Croak Pi figura per esteso come  Croak Peonie.

Che cos'è Croak Peonie? E' una dicitura intraducibile, che esemplifica la rozzezza di una lingua arcaica. La lingua che parla una non meglio precisata popolazione del Mediterraneo, fatta di contadini e di pescatori. Croak Peonie è dunque la cornice diciamo così allegorica in cui si svolge la storia d'amore dei quattro protagonisti del romanzo. 

E Croak Pi? Anche Croak Pi è una cornice diciamo così allegorica. Che cela una realtà, ma la reinterpreta liberamente e la trasferisce su un piano simbolico. Così facendo un "banale" villaggio collinare viene trasformato impercettibilmente in un luogo mentale. Dove agiscono personaggi che sono istanze e aspirazioni del vivere. Istanze poco riuscite, nella maggior parte dei casi. E aspirazioni mancate.  Con qualche isolata  eccezione.

Cronologicamente la storia si sviluppa a cavallo della Grande guerra, con una coda significativa negli anni del cosiddetto Boom economico, l'epoca in cui l'Italia rurale si spopola e si travasa nelle nuove periferie.

Ma non c'è nessuna nostalgia del passato e dell'idillio campestre in Croak Pi. Se è per questo non c'è nessuna concessione a una ideologia del "progresso". Croak Pi lentamente decade, il Salus per aquam che sorge a 10 chilometri dal villaggio perisce in un incendio e il castello medievale adiacente si consuma pezzo su pezzo come un ghiacciaio che rotola a valle. 

I personaggi, per parte loro, non producono grandi storie, né storie a lieto fine. Il romanzo li racconta alle prese con la loro scarsa capacità di vivere il tipo di vita che si sono prefissati di vivere. Dove l'unica cosa sensata che fanno sembra quella, ogni tanto, di ragionare su se stessi e sulle proprie scelte. Sono le classiche persone "mancate" della narrativa sveviana o pirandelliana? Si e no... perché c'è una certa "grandezza" nel loro modo inconcludente di tirare avanti.

Con Croak Pi, Pietro Cabrini prosegue il suo itinerario narrativo, iniziato con Vero quasi vero e con Il (suo) doppio. Ha scelto di non raccontare storie "vere", ma piuttosto storie metaforiche. E ha scelto di raccontarle con una lingua che  civetta con la lingua parlata o con il linguaggio giornalistico solo per discostarsene.

Una presa di posizione volutamente polemica nei confronti della narrativa di consumo, che organizza trame sempre più avvolgenti (e sempre però più banali) e mette in scena personaggi che non sono altro se non istigazioni ad identificarsi: col buono, con il brutto, con il cattivo.



l'autore da giovane





ottobre 19, 2019

INTERVISTA A UNO SCRITTORE SCONOSCIUTO



lo scrittore Pietro Cabrini


D. Lei come si chiama?
R. Mi chiamo Pietro Cabrini. Opps, mi è scappato... Accidenti, avrei voluto mantenere l'anonimato!
D. Non è corretto intervistare uno sconosciuto. Lei era tenuto comunque declinare le sue generalità...
R. Vabbè, ormai il danno è fatto... mi dica cosa vuole.
D. Voglio capire come mai lei ha deciso di rimanere un' oscuro scrittore di provincia.
R. In parte l'ha deciso la storia. Ovverosia, nel mio caso possiamo dire che... non c'è mai stata e non c'è tuttora STORIA.
D. Dunque non è stata una sua scelta.
R. Beh, all'inizio sono stato un oscuro scrittore di provincia perchè tutti all'inizio sono ... oscuri scrittori di provincia.
D. Non tergiversi, per cortesia e soprattutto non ci prenda per fessi.
R. Intendo dire che scrittori non si nasce, ma si diventa.
D. L'avevamo capito... Dunque, i passi che lei ha intrapreso per uscire dall'oscurità, ovverosia per calcare la scena letteraria, sono stati del tutto infruttuosi!
R. Esattamente!



Pietro Cabrini

D. Non ha mai tentato il suicidio?
R. Che sciocchezza!  Il fatto di non vincere un concorso letterario o di ricevere dagli editori solo dei "NO" non è una ragione sufficiente per suicidarsi.
D. Morselli si è suicidato per questo.
R. Anche Pavese si è suicidato e anche Foster Wallace... eppure non erano degli oscuri scrittori di provincia né l'uno né l'altro.
D. Quali sono i suoi autori preferiti?
R. W. G. Sebald e R. Bolagno.
D. Sono simili, in effetti, anche se Bolagno è più "barocco".
R. E poi J. Hawkes.
D. Chi?
R. L'autore di "Arance rosso sangue".
D. Non lo conosco.
R. Lo conosco io...


Pietro Cabrini

D. Torniamo ai suoi insuccessi letterari. Che insegnamento ha tratto da queste disconferme?
R. Beh, in prima battuta mi sono sentito un talento incompreso. Appresso ho fatto un po' di autocritica e mi sono fatto persuaso che la mia scrittura era in controtendenza.
D. Secondo lei, perchè?
R. Perchè io scrivo di quello che interessa a me e quello che interessa a me non interessa agli altri.
D. Molto bene. Dunque lei se ne è fatta una ragione.
R. Mettiamola così. Ho realizzato che io scrivevo per "curare" me stesso e dunque dovevo essere pago del fatto di aver svolto un lavoro utile per la mia salute mentale e non pretendere anche il plauso del pubblico.
D. Anche Flaubert scriveva per "curare" se stesso.
R. Secondo me tutti gli scrittori validi scrivono per questo. Ad esempio Proust... vogliamo parlarne?
D. E gli scrittori non validi?
R. Beh, loro (badi bene, sono la maggioranza) scrivono per... diventare famosi.
D. E ci riescono?
R. Macchè. Firmano qualche copia, vincono qualche premio Strega e prima o poi tornano ad essere degli oscuri scrittori di provincia. Guardi Paolo Volponi. Chi se lo fila, oramai. E dire che lui era pure uno scrittore valido.
D. Volponi chi?
R. Ha visto!




Pietro Cabrini








marzo 20, 2017

Una ANTENATA DIMENTICATA

Ho promesso a un amico di Facebook una "scheda" su una vecchia signora che negli anni '50 mi portava nelle gallerie milanesi a conoscere i pittori. Quando io avevo solo 5 anni!




Non ho messo a caso, qui, il volto della statua della Minerva di Pavia. La statua, opera del Messina, l'ha infatti commissionata e pagata Lei. Dopo di che è rimasta in bolletta!

Se vi capita di passare per Pavia, girate dietro la statua. Troverete una piccola lapide: la statua è un omaggio a Ottorino Rossi, rettore dell'Università di PV negli anni Trenta, neuro-istologo e allievo di Golgi. Anche la Lea Del Bo faceva parte della scuola neuro istologica di Pavia. E a un certo punto era diventata l'assistente di Ottorino Rossi. Dopo di che il Rossi l'aveva sposata in seconde nozze, brigando a Roma per fare un matrimonio regolare, malgrado fosse già sposato. L'uomo aveva conoscenze altolocate...

Quando il Rossi è morto precocemente, per colpa della peste dei radiologi (l'esposizione cioè ai raggi X), la Lea ha lasciato l'università, ha investito tutta l'eredità nella statua commemorativa, si è ridotta in miseria e ha accettato il primo posto libero: psichiatra nel manicomio di Mombello, reparto femminile.

Io l'ho conosciuta a Milano quando faceva la dottoressa dei matti. Era un'amica intima di mia zia, che insegnava lettere al Manzoni. Viveva con la signorina Dedi (una ex suora ed ex insegnante di francese), abitava in via Vasto (fronte l'Arena, vicino a Paolo Sarpi, il quartiere cinese), in un palazzo buio e decoroso della borghesia milanese. Il suo appartamento era pieno di tendaggi pesanti e di mobili scuri con facce di grifi, donne poppute, ornamenti floreali.

La Lea era una comunista. Per la precisione una troskista. E perciò era ostacolata a Mombello dai cattolici e a Milano dai compagni stalinisti del PCI.
Come avesse fatto una troskista a sposare un fascistone come il Rossi, mistero!
Bene. Questo donnone alto, che era stata un'efebica fanciulla (c'era nel suo studio un ritratto di lei da signorina), e portava i capelli bianchi acconciati come quelli della Kuliscioff, questo donnone amava l'arte, si era affezionata a me e mi portava in giro nelle gallerie milanesi, che negli anni '50 erano fervide di operosità artistica. Io bimbo ho conosciuto Dimitri Plescan (qui sotto, uno dei suoi pochi quadri) e forse ho visto nascere anche i Nucleari di Baj e Dangelo, ma non me lo ricordo.


Poi sono stato allievo privato di Leonardo Dudreville, allora settantenne. Ex futurista, poi esponente di Novecento, spesso in polemica con Margherita Sarfatti, si era ritirato durante la guerra sul lago Maggiore e c'era rimasto: a cacciare, pescare, costruire barche, dipingere paesaggi lacustri che vendeva agli industrialotti locali.
Erano tempi che un bambino poteva, senza formalità, essere allievo di uno dei protagonisti dell'arte del '900!

Per chiudere. La Lea era figlia di un medico socialista, di quelli che di notte andavano in giro col calesse, in Brianza e non chiedevano l'onorario ai contadini. 
Aveva studiato medicina quando erano in poche donne a farlo. Probabilmente aveva un pessimo carattere. Ma sicuramente è stata una vittima del pregiudizio: maschilista e politico.
Mi sono sempre augurato che avesse una liaison sentimentale con la signorina Dedi. Ma non è detto. Forse hanno solo messo insieme le due solitudini.


L'IPER-LINGUISMO di JOHN HAWKES

Può un romanzetto di meno di trecento pagine suggerire tanti spunti di riflessione come Arance Rosso Sangue di John Hawkes?

Qualche lettore penserà forse che io sono la reincarnazione dell'autore. E' già il quarto post che dedico a questo romanzo del 1970, riedito da Minimum fax nel 2010 (in precedenza era stato edito da Einaudi, nel 1974, col titolo più appropriato di Arazzo d'amore).

Solo qualche mese fa ho riletto Pastorale americana di P. Roth. Non m'è venuta voglia di scrivere neanche una riga. E se mi proponessi di farlo, come compito a casa, scriverei un post, un solo post, sull'ambiguità (ideologica). Invece con Arance Rosso Sangue basta che legga un brano e mi parte l'embolo della scrittura critica.

Una constatazione, di struttura. In un precedente post minimizzavo il parere di un critico che parlava, per questo romanzo, di una spiazzante sequenza di flashback. Sì, ci sono, è vero, dei frequenti anda e rianda fra passato (prima del suicidio di Hugh) e presente (dopo il suicidio di Hugh). Ma spiazzante sequenza... che esagerazione! La prima metà del romanzo ne conta sette. Non mi sembra uno sproposito.
Piuttosto, la considerazione può essere giocata in un altro modo, più pregnante: questo romanzo è tutto fatto di piccoli episodi, come una costruzione di mattoncini lego. Tessere di un mosaico, abbastanza a se stanti, insomma.

L'ultimo che ho letto ricorda il gusto decadente di certo Luchino Visconti. Ed è il racconto del faticoso varo di una barca, che viene spinta giù per la collina rotolando su dei ceppi, fra marmaglia urlante, vecchi, il prete in tonaca e svariati pastori nerboruti piccoli e neri. Mentre Cyril e Catherine, che sono prossimi a riconciliarsi, grandi e bianchi, osservano la scena come due semidei.

Naturalmente la lingua è sempre esageratamente fiorita. Ma non è il fiorito retorico e melenso del D'annunzio del Piacere.
E' il fiorito, appena appena ironico,  di un certo... iper-linguismo...



marzo 09, 2017

JOHN HAWKES: le scene madri di Arance Rosso Sangue

Ne abbiamo già parlato, di questo romanzo, che credo sia sconosciuto ai più e verso il quale io ho invece una strana coazione a ripetere. Non mi stanco, in altre parole, di rileggerlo. 
Credo che ad attirarmi sia l'atmosfera che circola nelle sue pagine, per definire la quale non riesco tuttavia a trovare l'aggettivo giusto. Crepuscolare? Se  attribuiamo al termine crepuscolare il significato di narrativa delle piccole cose, beh, nel caso di Arance Rosso Sangue (ovverosia di Arazzo d'amore)... ci siamo... e non ci siamo. Ci siamo perché la trama del romanzo è fatta di cose minime: imboscate d'amore, gesti, allusioni, collusioni, manovre seduttive. Non ci siamo perché nell'Arazzo d'amore la quotidianità non ha una parte significativa. Al contrario, scorre via quasi come se non ci fosse o contasse ben poco. Ciò che conta è solo l'idillio.
Si veda un caso emblematico e cioè l'incontro fra la coppia Cyril-Fiona e la coppia Hugh-Catherine. I quattro si conoscono quando la corriera che trasporta la seconda coppia, con le tre figlie e il cane, deraglia in un maleodorante canale. Tutto il paese si affanna per tirarli fuori e finalmente, dopo svari sforzi inutili, la famigliola esce indenne dal tetto della corriera. 
Orbene, tutto questo viene raccontato in chiave sottilmente umoristica e viene raccontato unicamente perché sfocia nella possibilità di una combinazione a quattro.

La cosa curiosa è che in quasi tutta la sua produzione John Hawkes è un autore pulp, affascinato dalla violenza. Il suo primo romanzo, The Cannibal (1949) è una fosca storia ambientata nella Germania incendiata dalla guerra. Seconda pelle (1964) ha come tema dominante l'abiezione. Qui invece, come suggerisce il titolo einaudiano Arazzo d'amore (1974) siamo invece immersi dalla prima riga all'ultima nei dolci sollazzi e nei piccoli patemi dell'amore e se sul quadrilatero amoroso a un certo punto piomba imprevista e funesta la tragedia, l'atmosfera rarefatta del romanzo non muta per colpa di questo incidente di percorso. Cyril, il protagonista, continuerà infatti a tessere i suoi arazzi d'amore. E lo farà questa volta con una giovane "indigena" capitatagli a tiro quasi per caso.
Non è certo, Arance rosso sangue, il Romanzo Americano (grande o piccolo che sia) . Ovverosia non racconta l'America, né pretende di salvarla da se stessa.



Di Americano, anzi, non ha proprio nulla. Non si svolge negli States. I quattro protagonisti non sono i classici perdenti o vincenti del teatrino a stelle e strisce. Vivono non si sa di che. Vivono all'estero ma non si sa dove (in un arretrato paese mediterraneo, questo sì, ma potrebbe essere la Grecia, il Portogallo, il Marocco, l'Italia meridionale...). Hanno tre figlie e un cane, ma questo non gli impedisce di flirtare notte e giorno sotto un pergolato o sulla spiaggia. Sono dediti ai giochi d'amore. Ma il loro erotismo ha la leggerezza di un minuetto. Tranne che per Hugh. Quello che farà volare per aria le carte e rovescerà il tavolo da gioco. 




Ci sono tuttavia in questo romanzo senza grandi sviluppi (a meno di non considerare uno sviluppo il suicidio di Hugh)  alcune scene madri in cui l'atmosfera vaporosa, momentaneamente, si addensa. Sono quasi dei piccoli arazzi nel grande arazzo d'amore. 
Ne cito due, a caso. La prima è la scena che si protrae per 6 pagine in cui Cyril maliziosamente denuda i seni della moglie, attendendosi da Hugh che lui faccia altrettanto. Ma naturalmente Hugh non lo farà e - a scoperchiare i propri seni - sarà costretta a farlo da se stessa la moglie di Hugh, Catherine. L'altra è la scena in cui Cyril e Hugh fotografano, spogliandola a poco a poco, in un crescendo che però non diventa mai erotismo compiuto, una giovane contadinella del posto, che poi diventerà la governante di Cyril.

Chi ha un minimo di dimistichezza con la letteratura amorosa, antica, medievale, moderna farà sicuramente fatica a inquadrare nel genere erotico questo romanzo. Qui non c'è mistica e non c'è carnalità. C'è solo un erotismo fatto di parole e di gesti. Niente Georges Bataille. Niente Anais Nin. Niente Nabokov. Niente Henry Miller. A voler citare qualche romanziere che vagamente gli assomigli, l'unico nome che viene alla mente è quello di Queneau. Con il quale Hawkes ha in comune più che l'erotismo una certa tendenza allo sfottò
C'è da dire che molto dell'effetto divertito di questo romanzo è determinato dal racconto in prima persona. Ed è il racconto di Cyril, non quello di Fiona o di Hugh o di Catherine. Cioè il racconto del personaggio meno problematico, fisicamente più dotato (Hugh, oltre ad aver un braccio solo, soffre di cuore), più compiaciuto e forse più determinato del gruppo. Insomma, il cane alfa della cordata amorosa.
Vi consiglio a questo punto di leggere le recensioni che figurano su AnobiiCe n'è in pratica una sola a favore di Hawkes. Che condivido in pieno. Agli altri, uomini e donne, il romanzo è sembrato barocco, inconcludente, verboso. Il romanzo di un "minore". C'è da dire che tutte queste stroncature non fanno minimamente testo. Ti fanno solo venir voglia di deprecare la tendenza della gente a esprimere opinioni anche in campi dove non è ferrata. O meglio: dimostrano come sia difficile capire un autore e soprattutto un autore raffinato, indifferente al dato di cronaca, come Hawkes. Lettori di questo tipo si fanno condizionare dall'idea che un romanzo sullo scambio di coppia si possa scrivere in una sola maniera. Magari quella, incentrata sulla denuncia dei vizi della middle class, suggerita da Updike (Coppie, 1968). Lettori come questi non sanno cogliere l'opportunità che offre ogni autore valido: aprire spiragli nuovi nella realtà della letteratura.

Una valutazione più attenta nella recensione di Fior di Libri.





marzo 07, 2017

JOHN HAWKES: Arance rosso sangue

Dunque, il romanzo The Blood Oranges (edito nel 1974 in Italia col titolo Arazzo d'amore) è stato scritto nel 1970. Quando John Hawkes aveva già  scritto The Cannibal (1949), il romanzo d'esordio e Second Skin (1964), il suo romanzo forse più importante. L'autore nel 1970 aveva 45 anni. Qualche anno meno del suo protagonista, il biondo, bianco (un toro bianco), atletico Cyril.




Vien subito da pensare che "dietro" questo romanzo ci sia tutta la cultura libertaria di quegli anni e in particolare il saggio "filosofico" Corpo d'amore (1966) di Norman O. Brown. Ma potrebbe esserci anche il Nabokov di Lolita (1955), un autore che Hawkes adorava, stando alla testimonianza del suo allievo Rick Moody.

A ben vedere, però, Cyril e sua moglie Fiona sembrano più due esponenti  del jet set che non due figli dei fiori e lo comprova alla grande il disprezzo che ostentano nei confronti del paese che li ospita (la Grecia? il Portogallo?), dove gli uomini e le donne sono piccoli, bruni, brutti, ignoranti e hanno una lingua che suona gotica. Come la frase  da fumetto che Cyril usa per indicare la parlata indigena: croak peonieLa loro stessa rincorsa dell'amore (Cyril e Fiona sono in buona sostanza due allegri scambisti) non ha nessuna carica liberatoria. E' vissuta e pratica col massimo di pacatezza, nel tentativo, di solito riuscito, di succhiare con le loro avventure  (che solo per convenzione potremmo chiamare libertine) quanto più nettare possibile. In pace e in serenità.

Dove sta dunque, allora, il fascino che promana da questo romanzo?
Beh, non sta certo nella tragedia che si consuma cammin facendo e che sfascia il quartetto d'amore che Cyril aveva sapientemente costruito. Senza voler anticipare nulla della "trama" (per rispettare chi il romanzo non l'avesse ancora letto), possiamo dire con sicurezza che questa tragedia irreversibile, ai fini del racconto, è assolutamente ininfluente.
L'arazzo d'amore viene sì lacerato dagli eventi. Ma la personalità del protagonista non ne è travolta e il suo racconto del "dopo" non differisce minimamente dal suo racconto del "prima".

L'affabulazione domina dunque incontrastata dalla prima all'ultima pagina. E non è, come si dice abitualmente di Hawkes (quasi fosse un difetto), una "affabulazione ad alta densità intellettuale". Anche se è, indiscutibilmente, un'affabulazione virtuosistica.








marzo 05, 2017

ARANDE ROSSO SANGUE ovvero ARAZZO D'AMORE

Lo confesso: io uso il blog per scopi personali. E ho ragione di farlo. Quanti saranno quelli che ci finiscono dentro per caso? Se va bene, uno al giorno. Una miseria. Per cui: ecco trasformato Ci piace l'Italiano in un quaderno di APPUNTI. Con il vantaggio che avendo virtualmente il  blog un pubblico, sono costretto a scrivere in modo comprensibile, partendo da un assunto, senza lasciare nulla al caso. 

Anche Facebook lo uso così. Lì ci sono però persone in carne ed ossa che mi leggono e so anche chi sono. Meglio. Il feedback è assicurato. E produce conoscenze.

Ma veniamo al romanzo di cui in questo momento mi sto occupando: Arance rosso sangue di John Hawkes. 


Preferisco però chiamare questo romanzo del 1970 con il titolo che gli fu dato in Italia nell'edizione einaudiana del 1974: ARAZZO d'AMORE. Questa dicitura compare infatti più e più volte nel corso del romanzo. Mentre le arance rosso sangue, a cui viene paragonata la palla infuocata del sole che si liquefa e che bacia i corpi dei quattro amanti (Cyril, Fiona, Hugh e Catherine), se non vado errando compare una volta soltanto.

La prima constatazione è extra-narrativa: Hawkes, che aveva una bella faccia ridente (anche se un suo allievo, Rick Moody dice di lui che era un omino smilzo e con una specie di sorriso sghembo), da noi è stato pressoché ignorato.




Su 21 scritti pubblicati in America, in Italia ne sono stati tradotti solo due: Seconda pelle (1964) e, per l'appunto Arance rosso sangue.
In compenso i giudizi su di lui sono impressionantemente unanimi. Insomma, parrebbero confezionati al ciclostile. 


La prima cosa che - immancabilmente - si dice di lui è che è uno dei grandi maestri (oppure uno dei padri) del post-moderno americano. Ma non grande come Pynchon, evidentemente, visto che ben pochi sanno chi è.  Librai in testa. A Pynchon ha giovato, evidentemente, la ritrosia quasi patologica. Oppure, chi lo sa, l'amicizia con DeLillo. Ma sono solo le congetture velenose di chi (come me) preferisce di gran lunga il nostro omino smilzo al romanziere funambolico di Arcobaleno della gravità.

Venendo ad Arance rosso sangue, non è vero che non c'è una trama e che non ci sono dei personaggi. Non è vero, insomma, che Hawkes "sospende i tradizionali vincoli della narrativa", come sostiene Wikipedia. Come non è vero che il romanzo sia costruito su una "spiazzante sequenza di flasback" (Umberto Rossi). C'è semplicemente un pacato, seppur insistente, anda e rianda fra il dopo e il prima. E c'è una narrativa che non aspira a raccontarti la realtà, a raccontarti la società, a raccontarti la sofferenza e il male. Insomma, la narrativa c'è, ma è un'altra narrativa. Più difficile da cogliere e da apprezzare.

Quello che seduce e conturba in questa storia fuori dal tempo è esattamente il fatto di essere una storia un po' fuori dal tempo, che sembra quasi svolgersi in una lontana epoca pagana. Ma senza riverberi mitici o mistici o letterari.
Merito o colpa sicuramente del protagonista, Cyril, che è il testimone della vicenda. Uomo grosso, bianco, atletico, raffinato. A suo modo un "grande amatore". E di sua moglie Fiona, che lo asseconda nei continui scambi di coppia, ma tuttavia ha una sua prepotente personalità, alla quale il protagonista nonché voce narrante si arrende sempre.
Ma soprattutto è il linguaggio che conferisce quest'effetto estraniante alla vicenda. Un linguaggio sovra-dimensionato. Un linguaggio invadente. Un linguaggio che è sicuramente il principale oggetto delle attenzioni di Hawks.
Grazie ad esso una storia in fondo banale, di coppia aperta, acquista un fascino lirico, indefinito.

C'è anche un qualcosa di claustrofobico in questa storia, che non è piccante come ci si potrebbe aspettare, visto che è  pur sempre una storia erotica. Claustrofobica perché ti estrania dalla comune realtà. Ma non ti immerge  in un'altra realtà.  Piuttosto ti lascia orfano del rapporto con la realtà. Insomma. Con Arazzo d'amore siamo poco nella veglia. Men che meno siamo nella letteratura erotica. Diciamo che siamo piuttosto nell'aura magica e immaginifica dei ricordi  dei bei tempi andati.




Anche la psicologia dei personaggi, come la trama, è evanescente e produce tante belle colorate bolle di sapone. Anche quando (come nel caso di Hugh, l'anima nera del gruppo)  si vive più di tormenti che di appagamenti.


giugno 12, 2016

MISERIE DEL GIORNALISMO CULTURALE




Leggo su Il piacere della lettura dell'11 giugno un articolo intitolato Il romanzo un'onda anomala. Mi butto a pesce, naturalmente, perché ho intravvisto fra le righe il nome di Giorgio Ficara e avendo io appena scritto un post in questo blog sul suo recentissimo saggio Lettere non italiane sono curioso di sapere cosa ne pensa l'articolista.

Bene, se già prima intuivo che le pagine culturali dei quotidiani sono diventate delle inutili sequenze di righe tipografiche, ora ne ho la conferma.
La tesi di Ficara, così elaborata, così ricca di diversi angoli visuali, che tira, è vero, pugni nello stomaco, ma lo fa con garbo, qui viene ridotta alla banale constatazione che il romanzo è in Italia un genere praticamente estinto.
Tesi su cui peraltro l'articolista non è d'accordo, perché ciò che lui coglie nella realtà italiana è caso mai il fenomeno per cui in Italia, si scrivono e si pubblicano troppi romanzi.
In questo modo l'elegante ricognizione di Ficara, che riprende le fila dell'annoso dibattito fra disfattisti e ottimisti sul tema che fine ha fatto la letteratura in Italia (due nomi per esemplificare, Alfonso Berardinelli e Carla Benedetti), viene pucciata nella candeggina e decolorata all'istante.

Poi l'articolista, passando di palo in frasca, si mette a parlare en passant di Vittorini e di Calvino, cioè del tempo in cui c'era in Italia un'editoria di cultura e conclude il suo dire facendo una gratuita e frettolosa apologia di Giorgio Manganelli. Che contrariamente all'apocalittico Ficara, non si sa perché.... fa ben sperare!


maggio 23, 2016

LA LETTERATURA INTERROTTA







Ringrazio Lorenzo Leone per avermi segnalato questo saggio, finito di stampare nel mese di aprile del corrente anno. L'ho letto tutto d'un fiato, perché Ficara ha scelto di parlare di un argomento scottante, che peraltro ha appassionato negli ultimi anni tutti quei critici (militanti e non militanti), che si occupano di Novecento e di attualità letteraria (Berardinelli in testa): che fine ha fatto la letteratura italiana?
Posso dire, a lettura finita, di essere d'accordo con la tesi dell'autore, che peraltro Ficara ha l'abilità di sfumare con furbizia?
Procediamo per gradi...



Andrea Bajani, su la Repubblica (22 maggio) ha scritto, parlando del declino del libro: il libro rischia di estinguersi perché si è estinto il lettore, che ormai è tutto preso dai suoi troppi dada tecnologici. 
Superficiale, direi. Anch'io, come molti miei conoscenti, perdo tanto tempo dietro i dada tecnologici e i social. Ma non ho smesso per questo di leggere.
Ma cosa c'entra Bajani con Ficara?
C'entra, perché il nostro si pone lo stesso problema da una angolatura diversa. E cioè si chiede: per caso, in Italia, si è estinto il letterato? E, in tal caso, perché mai, in Italia, si è estinto il letterato?
(uso apposta la dicitura letterato, anziché quella più terra terra di scrittore o di romanziere, perché Ficara fa mostra di pensare che l'Italia abbia sempre avuto una tradizione letteraria decisamente alta. Fatta da letterati, per l'appunto, e non semplici scrittori).

Il saggio prende le mosse da una constatazione educata: fra contemporanei e moderni c'è una sostanziale discontinuità. Poteva dire con maggior schiettezza che la letteratura dei nostri giorni è letteratura di nani, se confrontata con quella del secolo breve. Ma Ficara sa benissimo che uno dei rischi che si corrono, quando, come lui, si è nati "prima" (prima del postmoderno, prima di Berlusconi, prima dei bestseller di Eco) è quella di rimpiangere e di mitizzare il passato. E perciò si guarda bene dall'essere tranchant.
Poi mette il piede più coraggiosamente nell'acqua e pronuncia un verdetto all'aceto: la letteratura corrente ha come suoi modelli i b-movies americani (film di serie B) e si è scordata la grande narrativa del '900 italiano (Svevo, Tozzi...).



Ma a quali scrittori pensa Ficara?
Beh, di nomi ne fa pochini e non sono particolarmente significativi: Melissa P., Ravera, Casati Modigliani, Brizzi, Camilleri, Faletti, Moccia, Saviano... 
Mi sono subito chiesto: perché il "povero" Brizzi e non, per esempio, la Santacroce? Io non ci vedo questa gran differenza e comunque siamo su un altro piano rispetto a Melissa P.
Ficara salva Tondelli? Sì, lo salva. Ma non si pronuncia su tanti recenti vincitori dello Strega (tranne Siti). E ignora totalmente il fenomeno dei Cannibali, che pure sono figlioli di Tondelli, come sono allievucci di Umberto Eco.
I Cannibali hanno segnato l'inizio della decadenza della nostra letteratura o sono stati il frutto tardivo delle avanguardie e delle neo avanguardie (Renato Barilli)? E in che angolino del cuore di Ficara si colloca un romanziere impegnato come Sebastiano Vassalli (morto da poco) che non è un Volponi, tanto caro a Luperini, ma è pur sempre un esponente della letteratura alta del '900?





Inutile aspettarsi pronunciamenti più circostanziati. Ficara svicola sui peccatori e preferisce concentrarsi sul peccato.
Peraltro, anche a proposito del peccato, la sua prudenza non gli consente di scavare a fondo.
Sarà che il suo mestiere non è quello del sociologo culturale, ma un Asor Rosa sarebbe stato molto più deciso di lui e forse (dico forse) ci avrebbe offerto qualche chiave di lettura in più. 

La riflessione che sorregge tutto il discorso di Ficara è la seguente. 


Si è creata indiscutibilmente da qualche tempo una discontinuità con la tradizione letteraria italiana (la letteratura interrotta) e questa discontinuità è testimoniata dal romanzo merce oggi in voga, che è caratterizzato da una atroce vuotezza. Alla radice di questo nouveau roman (ovviamente lo diciamo ironicamente) c'è un eccesso di informazione e di comunicazione e questo "plotting non cognitivo" ha preso il posto di quel "quid di verità" che il romanziere tradizionale, pur non rinunciando a divertire, offriva sempre ai suoi lettori.


L'abbiamo già detto, Ficara è sorprendentemente sfumato e morbido (a differenza, per esempio, di un Barilli). Di conseguenza, pur avendo un credo estetico che sorregge questa sua analisi del presente letterario (italiano e non solo), non si dilunga a teorizzare, anche se alla fine la sua tesi (di ascendenza adorniana?) la cogli lo stesso e ti rendi conto che in fondo la sua idea di letteratura è quella di un arte che sia rispecchiamento della vita.
C'era vita, buttiamola lì così, in Pasolini e in Gadda... c'è poca o nulla vita  nei romanzi italiani di oggi, che oltre a denotare una diffusa mancanza di stile, denotano anche una spiccata noncuranza morale. 
Insomma, sono dei falsi confezionati in modo per giunta sciatto e dozzinale (queste non sono parole sue).

Tutto qui? Macchè! Il saggio di Ficara è ricchissimo di spunti, di citazioni, di micro-saggi e forse il suo aspetto più pregevole non è l'analisi, che c'è e non c'è, del presente letterario, ma la paziente e affettuosa evocazione di tanti critici che sul tema si sono cimentati, nonché (anch'essa affettuosa e acuta) la disamina di scrittori di ieri e dell'altro ieri che in qualche modo Ficara considera esemplari.

Due elementi di insoddisfazione accompagnano la lettura di questo raffinato contributo: prima cosa, perché non è andato più a fondo nell'analisi del problema che ha così elegantemente evocato? Seconda cosa: perché ci ha consegnato, alla fine del saggio, la sua lista dei buoni (Gadda, Arbasino, Landolfi...) facendo finta di ignorare che ogni critico ha la sua lista dei buoni. Penso per esempio alla lista che Carla Benedetti compila polemicamente in Disumane lettere 2011 oppure all'ancora più selettiva lista che compila Andrea Cortellessa in Narratori degli anni zero, 2011.

E' legittimo che ogni critico abbia il suo Pantheon personale.  Ma il lettore sagace, da quei mediatori che sono i critici, si aspetterebbe delle santificazioni un po' più trasparenti.